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Assault to France

Sette ragazzi. Una ragazza. Quattro giorni. Seicento chilometri e più di sedicimila metri di dislivello da affrontare in sella alle nostre bici da corsa.

Viaggio, esperienza, avventura, follia, trovo difficile definire in un’unica parola quello che è stato. Mi ci vuole del tempo per metabolizzare, tempo per rendermi conto che quello che fino a qualche giorno fa era solo un programma scritto su carta è diventato qualcosa di reale, vissuto sulla nostra pelle.

Tante le persone che credevano in me. Altre che mi davano per vinta. “Tu non ti rendi conto… non avete il senso della misura… loro vanno in bici da più tempo di te, tu hai appena iniziato…”.

Giovedì 22 luglio sono arrivata a Susa con un bagaglio indesiderato: la preoccupazione. Insieme alla voglia di partire e iniziare a pedalare c’era anche un po’ di ansia. È stato sufficiente solo vedere i ragazzi, il Pippy, Ste, Uby, Briciola, Pincher e Cisco, farci qualche battuta e risata per dimenticare ogni pensiero negativo, e lasciare a Susa il bagaglio di troppo.

Siamo un gruppo variegato, ben assortito, formato da persone con età, vite e trascorsi diversi. Tuttavia una volta agganciati i piedi ai pedali siamo tutti uguali, tutti sulla stessa lunghezza d’onda, uniti dalla passione che ci lega alla bicicletta.

Abbiamo rotto il ghiaccio sul Colle delle Finestre, per metà asfaltato e per metà sterrato. Non una salita facile, ma nessuna di quelle in programma lo sarebbe stata.

Abbiamo proseguito verso il Sestriere e poi in direzione del Colle del Monginevro, non prima di aver fatto una breve sosta a Cesana Torinese al Filorosso Bistrot dalla mia amica Sisa, a cui ho voluto fare una sorpresa.

Passato il Monginevro eravamo in terra francese, e raggiunta Briançon abbiamo puntato l’ultima ascesa di giornata: il Colle dell’Izoard.

Le ore in sella passavano veloci, senza nemmeno rendersene troppo conto. Era la fatica a farmi ricordare da quanto tempo stavo pedalando. Cercavo di mantenere un ritmo regolare, sfruttare i falsi piani a mio favore nei tratti in leggera discesa per poi riprendere ad alternare le gambe con una cadenza più bassa quando la strada iniziava a salire nuovamente.

Raggiunti i 2000m di quota la strada che avevo percorso fino a quel momento, immersa tra prati verdi ed alberi rigogliosi ha lasciato spazio alle vette delle montagne che mi circondavano.

La prima tappa era conclusa e l’adrenalina era a mille. Detto con le parole che userebbe Ste “l’umore del gruppo era alto”.

Alle 7 di venerdì mattina avevamo già di nuovo i piedi sui pedali, pronti a ripartire in direzione del Colle dell’Agnello. Ci aspettava una tappa tutta italiana, con a seguire il Sampeyre e per ultimi, ma non per importanza, il Colle d’Esischie e il Colle Fauniera.

Questa tappa e quella di sabato sarebbero state le più impegnative, sotto tutti i punti di vista: chilometri, dislivello, difficoltà delle salite, quasi tutte non più brevi di 20km di lunghezza, per non parlare delle pendenze medie. Inoltre avremmo sempre sfiorato e superato i 2000m di altitudine, aspetto non del tutto trascurabile.

A posteriori è difficile dire quale salita abbia preferito in ciascuna delle giornate trascorse. Ognuna a modo suo mi ha affascinato e mi ha lasciato qualcosa, così come i compagni che mi ci hanno accompagnato.

Associo l’Agnello al Pippy e Uby, a quei km percorsi ancora un po’ assonnati per via delle poche ore di sonno, cercando di svegliarci a vicenda a suon di battute e freddure.

Ricorderò il Sampeyre per il discorso affrontato con Ste sullo yoga e la meditazione, e di come una pratica apparentemente così diversa dal ciclismo possa in realtà aiutare anche in questo sport e nella vita in generale.

E poi il Fauniera, con quegli strappi a percentuali a doppia cifra che mi facevano alzare la ruota anteriore della bici, le mucche che attraversavano la strada e il cucciolo di cane che ha fatto mille feste a Uby.

E le montagne come sfondo, sempre presenti, sempre diverse ma ugualmente magnifiche.

Tanto belle le salite quanto le discese. Strade strette che percorrevano i lati delle montagne in maniera sinuosa.

Paesaggi che ti bucano gli occhi e ti restano dentro.

La seconda tappa è terminata a Vinadio, dove c’era Simo ad aspettarci e proseguire con noi nei due giorni successivi. Siamo arrivati un po’ più stanchi del giorno precedente ma di certo non meno affamati. Le cene restano uno dei momenti più belli. Quando dopo la doccia, con vestiti puliti e ciabatte ai piedi perché le scarpe le ho lasciate a casa per evitarmi quel peso in più nelle borse, mi siedo al tavolo del ristorante, ordino una birra e guardando uno a uno i miei compagni negli occhi brindo a un’altra tappa portata a casa capisco di essere nel posto giusto con le persone giuste.

Eravamo a metà del nostro percorso. La sveglia era sempre puntata presto, le ore di sonno troppo poche. Ma per dormire ci sarebbe stato tempo una volta tornati a casa. Ora era il momento di riprendere a pedalare. Ognuno con i suoi piccoli acciacchi, dolori, fastidi, che in un modo o nell’altro abbiamo cercato di gestire a modo nostro.

Era chiaro fosse sabato dalla quantità di auto e ciclisti incontrati sulla strada, molto più numerosi rispetto ai due giorni scorsi. Stavamo percorrendo la strada per il Colle della Lombarda. Il cielo era coperto, non proprio rassicurante. A tratti scendeva qualche timida goccia di pioggia.

Non mi aspettavo nulla da questa salita, come da nessuna delle altre del resto. Ed è proprio quando non ti aspetti nulla che resti più stupito.

Raggiunta la vetta e i miei compagni, dopo la foto di rito e un bicchiere di tè caldo offertomi da una coppia in camper, ho indossato l’antivento e i guanti lunghi per imboccare la discesa.

Eravamo rientrati in Francia e questo voleva dire che alla prossima sosta ci avrebbe atteso un fragrante pan au chocolat prima di dirigerci verso il tetto d’Europa, la Cime de la Bonette.

La salita più lunga, la salita che ci ha portato più in alto, fino a 2802m di altitudine. Quella che ricorderò per i racconti e le chiacchiere con Cisco nella prima metà, e con Ste nella seconda. Una salita che si è trasformata in una sorta di confessionale a cielo aperto.

Ho ascoltato racconti facendone a mia volta. Stavamo pedalando ma stavamo parlando di chi siamo al di là della bici, al di fuori del gesto sportivo. Siamo persone, uomini e donne con storie più o meno facili, e con un presente che vogliamo vivere senza rimpianti.

I 24 e più km di salita non li ho nemmeno sentiti persa nelle parole e nell’orizzonte attorno a noi.

Dopo un pranzo che sapeva più di merenda visto l’orario, a base di omelette, mancava ancora il Col de Vars per chiudere la giornata e iniziare a sognare l’arrivo in albergo.

Abbiamo varcato le porte delle nostre camere alle 21 passate, giusto il tempo di toglierci maglie e bib sudati, metterci qualcosa di asciutto e uscire a rifocillarci per non rischiare di andare a letto senza cena. La buonanotte ci è stata data come di consueto dal Pippy con il suo kudos di fine giornata: ce l’eravamo meritato, ci eravamo fatti il mazzo anche oggi.

Domenica ho aperto gli occhi alle 06:09, circa mezz’ora prima dell’ora in cui avevo puntato la sveglia. Mi sono sciacquata la faccia con acqua fredda per cercare di svegliarmi. Ho dato un’ultima passata di phon al fondello che avevo lavato a mezzanotte del giorno precedente. Ho riempito le borse per l’ultima volta, pressando i vestiti, i gel e le barrette che ho portato in eccesso.

07:30 colazione, 08:00 piede sui pedali, pronti per la tappa che abbiamo nominato come “passerella”: Col du Lautaret, Galibier, Col du télégraphe e Col du Mont Cenis. Gli ultimi 4 passi per portare a termine la nostra avventura. È questo che sono stati questi quattro giorni insieme: una grande, grandissima avventura all’insegna dello sport e dell’amicizia.

Ci siamo divertiti come dei matti anche in questo ultimo giorno, dandoci manforte e condividendo l’un l’altra ancora qualcosa in più del nostro essere. In cima al Moncenisio abbiamo scattato l’ultima foto, un po’ frettolosamente perché sopra alle nostre teste sorvolavano delle nuvole minacciose che non sembravano avere buone intenzioni.

Lungo la discesa che costeggiava lo splendido lago del Moncenisio, di un color acqua marina così intenso da non sembrar vero, Ste gira lo sguardo e mi chiede: “Allora? Come sono andati questi giorni? Piaciuti?”.

Come spiegargli quello che mi stava passando per la testa. Cosa avevano significato per me i giorni appena trascorsi e averne potuto far parte. Quel senso di riconoscenza per avermi accolto nel suo gruppo, nella sua famiglia, gli Assault to freedom. Come spiegargli la mia soddisfazione di essere proprio lì con loro, fianco a fianco, pedale a pedale. Come dirgli grazie per avermi dato fiducia e aver creduto in me e nelle mie potenzialità. In qualche modo ho cercato di spiegargli tutto questo, tra una folata di vento e l’altra. Senza di lui, senza gli Assault, non mi sarei mai immaginata di arrivare a fare tanto. Tutto questo non sarebbe stato possibile.

Avevo immaginato più volte come mi sarei sentita al mio rientro a Susa: avrei pianto, avrei riso, avrei urlato? Lo stavo per scoprire. Alle 18 circa abbiamo raggiunto il parcheggio dove avevamo lasciato le nostre auto. Ho premuto sulle leve dei freni. Mi sono fermata. Ho sganciato i pedali e appoggiato prima uno e poi l’altro piede per terra. Ho interrotto la navigazione sul mio ciclocomputer e salvato finalmente la traccia. Un’unica mega traccia. Ho alzato lo sguardo e cercato quello di ciascuno dei miei compagni, dei miei amici, dei miei nuovi sette fratelli, scontrandomi con i loro sorrisi.

Sono scesa dalla bici, appoggiandola in parte all’auto e sono andata ad abbracciarli uno per uno. Ce l’avevamo fatta, avevamo portato a conclusione il progetto Assault to France. Un progetto tanto esagerato quanto ambizioso, ma alla portata dei nostri sogni e del nostro modo di vivere il ciclismo. Ad maiora ragazzi, sempre!

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Gran Trail Courmayeur
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