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Prima prova: lo Stelvio

8 luglio.

Ero in macchina, in viaggio dall’Aprica per raggiungere Bormio. Mi ci sarebbero voluti circa 50 minuti di strada. Un occhio era fisso sullo specchietto retrovisore, per controllare la bici sdraiata sui sedili posteriori. Avevo dovuto togliere la ruota anteriore per farla entrare, operazione che non amo fare per timore di combinare qualche guaio.

Suona il telefono. Era mia mamma.

“Sara, hai dimenticato a casa le solette delle scarpe da bici”.

CAVOLO! Ero certa di aver preso tutto. Proprio le solette dovevo dimenticarmi! Le avevo tolte dalle scarpe un paio di giorni prima per farle asciugare dopo essermi presa un acquazzone sulla strada di ritorno da Trivigno.

Era troppo tardi per tornare indietro. Matteo, il mio coach mi aspettava alle 9 a Bormio. “Ne farò a meno, pedalerò senza” ho pensato tra me e me. Fortuna che è arrivata un’idea più furba: usare le solette delle scarpe da running con cui stavo guidando inserendole in quelle da bici. In fondo il numero era lo stesso, avrebbe dovuto funzionare.

Arrivo al parcheggio di ritrovo in perfetto orario, e insieme a me arriva anche Matteo, già in sella alla sua bici. L’ultima volta che lo avevo visto di persona in sella a una bici era stato al Passatore. In quell’occasione l’unico a pedalare era stato lui: oggi per la prima volta avremmo percorso la stessa strada sullo stesso mezzo.

Rimonto la ruota con facilità e senza dire niente, per non voler fare la figura della svampita, passo con disinvoltura le solette da una scarpa all’altra, pregando che vadano bene e non mi diano fastidio: missione compiuta, sembravano fatte su misura!

Mentre finisco di prepararmi ci raggiunge Claudio, un triatleta amico di Matteo che avrebbe pedalato con noi. Eravamo pronti per partire, non prima di una sosta veloce per un caffè. Esattamente quando al bivio tra la strada che porta allo Stelvio e quella per Santa Caterina, e quindi in direzione del Gavia, si trova un bar, Da Stefi bar. È lì che ci siamo fermati. Non potevo sapere che quel bar sarebbe diventato una tappa fissa dei miei giri in bici con passaggio da Bormio.

Non so dire se negli attimi precedenti alla partenza, mentre attendevo che il segnale del satellite del ciclocomputer prendesse, prevalesse l’adrenalina o il timore di non sentirmi pronta per una salita importante come quella dello Stelvio. Tante, forse troppe, nuove variabili per una “ciclista” ancora inesperta come me: non avevo mai affrontato una salita così lunga, e soprattutto non avevo mai pedalato ad altitudini così elevate, per buona parte superiori ai 2000m di quota. Non sarei stata sola, anche questa volta al mio fianco ci sarebbe stato Matteo. Ma sarebbe stato sufficiente? Matteo avrebbe potuto darmi tutti i consigli del mondo e supportarmi com’era già stato capace di fare in passato, ma in cima al passo ci sarei dovuta arrivare con le mie gambe e la mia testa. Senza uno dei due le parole del mio coach sarebbero andate a vuoto.

Una volta in sella, fatte le prime pedalate, tutto d’un tratto è come se mi fossi risvegliata: demoralizzarmi non era da me. Ho convertito la paura che avrebbe potuto bloccarmi in determinazione e grinta, e con il sorriso sulle labbra ho imboccato la strada segnalata da un cartello che portava scritto “Passo dello Stelvio”.

La prima sberla non ha tardato ad arrivare: mi sono subito scordata di poter fare un classico riscaldamento, poiché si parte da subito su un leggero falsopiano, con il cuore che non ha esitato a salire, costringendomi a respirare con la bocca aperta per il respiro che si è fatto affannato. Dovevo prendere il giusto ritmo.

Matteo e Claudio erano davanti a me, quasi come a formare uno scudo protettivo. Io procedevo dietro di loro, chiacchierando e cercando di distrarmi dalla fatica. Quasi subito ho cambiato la schermata del mio Edge 830 visualizzando solo la mappa senza alcun dato: non volevo vedere la percentuale di pendenza per paura di “auto impressionarmi”. L’unico riferimento che mi era rimasto per capire a che punto fossi della salita erano i cartelli con indicato il numero dei tornanti che mi separavano dalla vetta: 38.

Brevi rampe più impegnative si alternavano a tratti meno ripidi e più pedalabili, fino a che ad un tratto, alzando lo sguardo dalla strada che stavo fissando, mi sono ritrovata immersa in un paesaggio lunare. Solo il passaggio di qualche macchina e moto ha interrotto il silenzio e la pace di quel luogo.

Passate alcune brevi gallerie mi sono ritrovata ai piedi di una serie di imponenti tornanti che si sviluppavano sia in altezza che in lunghezza sul versante della montagna. Per raggiungere il primo ho dovuto superare una rampa, breve ma intensa, che ho scoperto solo dopo essere al 14%. Nulla di impossibile, ma con un po’ più di metà strada alle spalle si è fatta sentire.

Sono salita, tornante dopo tornante, cercando di stare a ruota dei miei gregari. La forza che imprimevo ad ogni pedalata era costante. Avevo preso il ritmo. Anche dopo l’ultima curva la strada ha continuato a salire, con più dolcezza, ma senza sosta. E proprio nel momento in cui la strada ha iniziato a spianare, il paesaggio è mutato, quasi come se si fosse cambiato d’abito: i toni grigi delle pareti rocciose hanno lasciato spazio alle infinite sfumature di verde dei pascoli di alta montagna.

Ho approfittato di questi attimi per guardarmi intorno per rendermi conto di quanto in quel momento mi sentissi piccola di fronte alla grandezza e alla maestosità della natura che mi circondava.

Mi sono riappropriata di una pedalata agile, ma mi mancava ancora un ultimo sforzo. Gli ultimi 3km da gestire e poi sarei arrivata. Intravedevo uno dei rifugi in cima al passo. C’ero quasi, mancava poco ma la sensazione era quella di non arrivare mai. Avevo caldo, era una bellissima giornata tersa e soleggiata, ma con il fatto di essere ormai abbondantemente oltre i 2.000 m di quota bastava un soffio d’aria per farmi venire la pelle d’oca.

Vedevo scalare i numeri scritti sui cartelli: 10, 9, 8… era iniziato il count down. 7, 6, 5… Matteo e Claudio sempre una spanna davanti a me. Nessuno parlava più. Imprimendo un po’ più di forza sui pedali mi sono affiancata a loro, e con un altro sforzo mi sono messa in testa. 4, 3… Ero lì, a tre tornanti dall’arrivo. Dopo mesi ho sentito di nuovo ardere quel fuoco che in alcune maratone mi ha dato l’energia di fare lo sprint finale verso l’arco del traguardo, anche se ero allo stremo delle forze. Ho accelerato e 2, 1… ero arrivata!

Lascio andare tutto, sgancio i pedali e dopo circa due ore appoggio di nuovo i piedi per terra. Ero a 2.758 m. Ero in cima al Passo dello Stelvio. Mentre mi guardavo intorno, circondata da ciclisti di tutte le età e di ogni provenienza, ho sentito di essere nel posto giusto nel momento giusto. Semplicemente felice di essere lì.

Da quel giorno ci sono tornata altre due volte, a distanza di circa una decina di giorni l’una dall’altra, in compagnia di gregari diversi. E dopo averla percorsa tre volte dallo stesso versante, con partenza da Bormio, la quarta volta l’ho fatta per due volte, da Bormio e da Prato, il lato trentino, il più duro: è stata la volta che ho fatto il doppio Stelvio. Emozioni, timori, fatica, tutto amplificato e moltiplicato per due.

Nell’arco di un mese ho fatto e rifatto questa salita, mai uguale e mai banale. Direi una bugia se scrivessi che l’ho conquistata, perché la verità è che è stata lei ad aver conquistato me.

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