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Ragnar Wattenmeer 25-26 agosto 2018. Run. Drive. Sleep(?) Repeat.

Ho corso gare di 10km, mezze maratone e maratone, le mie preferite. La maggior parte delle volte ho corso da sola, altre volte in coppia o in terna. La Ragnar non rientra in nessuna delle tipologie di gara che io abbia mai corso. Forse perché l’aspetto della gara è solo secondario. La Ragnar è un viaggio, un’avventura, una sfida con se stessi. Così sono partita alla volta di Amburgo dove il 25 e 26 agosto si sarebbe tenuta la Ragnar Wattenmeer, la seconda edizione europea della staffetta più celebre degli Stati Uniti.

In cosa consiste la Ragnar?

Ogni squadra conta 10 componenti che, divisi su due van, correranno 250km totali che dal centro di Amburgo, costeggiando le rive del fiume Elba, li condurranno a St. Peter Ording sulle spiagge del mare del Nord.

Tramite MisterRunning ho avuto la fortuna di essere stata invitata da Reebok per far parte del team Reebok Italy, gli Italians do it better. Il van 1 sarebbe stato capitanato da Alessandra, con Manuela, Carlotta, Irene e Roberto, unico uomo in mezzo a 4 donne. Insieme a Stefano, il nostro capitano, Franco, Alberto e Gianni avrei fatto parte del van 2. La prima sfida sarebbe stata la convivenza con quattro uomini per tutta la durata del viaggio. Una squadra di runner con diverse esperienze alle spalle, ma tutti accomunati dal desiderio di lanciarsi a capofitto in questa avventura, ognuno con i propri timori, paure, aspettative e desideri.

Nonostante non conoscessi i miei compagni di van, era la prima volta che li incontravo, non c’è stata difficoltà di interazione e abbiamo subito rotto il ghiaccio improvvisandoci artisti e manifestando tutta la nostra creatività nella decorazione del van che sarebbe stata la nostra casa per le successive 24h.

La nostra partenza era fissata alle 15 di sabato pomeriggio. Il meteo non era dei più clementi: cielo grigio, vento e pioggia intermittente che aveva parzialmente sciolto le decorazioni sui nostri van. Alessandra avrebbe aperto le danze e dato inizio alla nostra Ragnar. L’abbiamo incoraggiata e caricata, e dopo averla vista partire ci siamo messi subito in strada per raggiungere la nostra zona di cambio, l’exchange point numero 5, dove l’ultimo runner del van 1, Roberto, avrebbe ceduto il testimone, lo slap bracelet, a Franco, il primo di noi a correre.

Franco è partito intorno alle 18:30, concentratissimo e con passo deciso. A seguire Gianni, Stefano, Alberto e per ultima io. Nella mia prima frazione (leg) avrei dovuto correre 10km. I miei compagni di squadra erano tutti delle schegge con un passo medio di 4’00’’ se non addirittura inferiore. Per questo siamo stati nominati come il “van di quelli veloci”. Io mi sentivo un po’ come Calimero non potendo vantare la stessa velocità, ma mi ero promessa di mettercela tutta e correre al massimo delle mie possibilità per non deludere i miei compagni di squadra.

Alberto mi ha passato il testimone intorno alle 21. La temperatura era mite, non pioveva e il sole era sparito all’orizzonte. Ho iniziato la mia corsa velocissima, costeggiando il fiume Elba e incontrando sul mio percorso numerosissimi greggi di pecore che mi guardavano passare con aria incuriosita. Sentivo i km succedersi scanditi dal suono del mio Garmin e dal mio respiro sempre più affannato per sostenere un ritmo che di solito tengo nelle ripetute. Era calato il buio e l’unica luce su cui potevo fare affidamento era la lampada frontale che avevo portato con me. Ho sorpassato un ragazzo incontrato sul sentiero dopo averlo incitato, “Go man, no much left, go!”. Poco dopo ho visto il cartello dell’ultimo km, questo mi ha provocato una scarica di adrenalina e ho deciso di aumentare ancora il passo. Ho proseguito sulla strada, ma non ho più visto cartelli, né van parcheggiati né alcun segnale che mi stesse ad indicare che ero arrivata. Ha cominciato ad insinuarsi nella mia testa il dubbio di aver sbagliato strada. Mi sono ritrovata tutto ad un tratto da sola in una zona industriale, immersa nel buio della notte con la pioggia che riprendeva a cadere e bagnarmi la pelle. Mi ero persa!

Cercando di mantenere la calma e non farmi prendere dal panico ho provato a fermare una macchina con alla guida una signora, sperando che mi potesse indicare la strada per la zona di cambio, ma ovviamente non era a conoscenza della corsa e non mi ha potuto aiutare in nessun modo. Decido di tornare indietro sui miei passi cercando di capire dove avessi sbagliato. Non saprei spiegare se fossi più spaventata per la situazione o scocciata di far perdere tempo prezioso alla mia squadra. Tornata di fronte al cartello dell’ultimo km ho cercato di fare quanta più luce possibile con la scarsa illuminazione della mia lampada frontale ed è stato proprio in quel momento che ho visto il cartello della svolta a sinistra che avevo mancato prima. Ho tirato un sospiro di sollievo e ho iniziato la mia corsa liberatoria verso l’arrivo, dove mi aspettavano i miei compagni di squadra, preoccupati per non avermi visto arrivare prima ma che sono stati subito pronti a tranquillizzarmi e rassicurarmi dicendomi che perdersi faceva parte dell’esperienza. Ciascuna squadra ha un lost runner, non avrei mai immaginato che sarei stata proprio io a meritarmi quel titolo!

Giusto il tempo di rifocillarci con un pasto caldo e ci siamo subito rimessi per strada con il nostro van. Le prossime frazioni le avremmo corse a notte fonda. L’essermi persa non mi ha demotivato o intimorito. È stata come una prova generale che mi è servita per aggiustare il tiro. Ho capito che dovevo portare con me una luce più potente e tenere gli occhi ben aperti. Ma prima della mia seconda leg ci sono stati altri imprevisti: anche Franco ha provato l’ebrezza di perdersi di notte, ritrovando la strada grazie alle nostre indicazioni telefoniche e all’ausilio della mappa che aveva con sé, e siamo addirittura riusciti a lasciare solo il nostro capitano Stefano all’arrivo della sua leg, aspettandolo alla zona di cambio sbagliata.

Il tempo trascorreva molto velocemente e in men che non si dica toccava di nuovo a me correre. Erano le 4:30 di mattina e non avevo ancora chiuso occhio. Ho cercato di riposare ma l’emozione era troppa per riuscire a prendere sonno. Questa volta mi spettavano 5km completamenti immersi nel buio. Ho iniziato la mia corsa a tutto gas. Volevo correre veloce, avevo voglia di sentire il vento fresco della notte tagliarmi il viso. Il percorso era rettilineo su una ciclabile, impossibile perdermi. Ho sorpassato due runner e nella volata finale ne ho superato anche un terzo. Al termine della corsa mi sentivo piena di energia, avrei potuto correre ancora, invece ci aspettava l’ultimo lungo spostamento verso l’exchange 25 dove ci saremmo dati l’ultimo cambio con l’altro van.

Alberto guidava, gli altri sonnecchiavano, ed io sono rimasta ancora una volta sveglia, questa volta a guardare l’alba sorgere in mezzo ai campi verdi, alle distese di cavoli e alle pale eoliche. In quel momento ho sentito un vero senso di pace e tranquillità, pensando di essere nel posto giusto al momento giusto, e ho cercato di fotografare con gli occhi tutta quella bellezza per poterla custodire per sempre dentro di me.

La mia terza e ultima leg era sempre più vicina così come la fine della nostra avventura. Anche se non era ancora finita e mi mancavano ancora da correre gli ultimi 11km già sentivo un po’ di nostalgia di quei momenti: assistere al passaggio del testimone dei miei compagni, saltare sul van e rincorrerli lungo il percorso, calcolare bene i tempi per arrivare in tempo senza sbagliare strada, attendere il mio turno e sentire le palpitazioni gli attimi prima di iniziare a correre.

Mentre mi stavo preparando Gianni mi ha domandato: “Sara, ti dispiace se corro l’ultima leg insieme a te?”. Gianni è instancabile, voleva correre ancora, più km di quelli che aveva già corso. Gli ho risposto che mi avrebbe fatto molto piacere condividere la mia ultima frazione insieme a lui. Perché la corsa per me è anche condivisione. Dopo aver eseguito insieme qualche esercizio tecnico di riscaldamento abbiamo aspettato insieme l’arrivo di Alberto e siam partiti, sotto gli sguardi e le parole di incitamento di tutti i nostri compagni di viaggio che si erano riuniti per vederci partire per l’ultima frazione prima di ricongiungerci definitivamente all’arrivo.

Tirava un forte vento a nostro sfavore, ostacolando la corsa e facendomi fare il doppio della fatica nel procedere, sforzo di cui però mi dimenticavo guardando il paesaggio che mi circondava: stavo correndo nel parco nazionale del Wattenmeer e all’orizzonte vedevo il mare del Nord. Su di me un cielo azzurro con nuvole bianche che parevano così soffici e leggere da assomigliare a batuffoli di cotone. Mi sembrava di essere dentro un dipinto.

A metà percorso, mentre stavo attraversando le strade di St. Peter-Ording, il forte vento ha portato una nuvola carica di pioggia che si è sfogata su di me e su Gianni, accompagnandoci in parte anche per la tratta nel bosco su un percorso sterrato con sali e scendi, scale da salire e scendere, alzando l’asticella della difficoltà dell’ultima leg. Dal bosco ci siamo ritrovati catapultati a correre su una spiaggia immensa di sabbia chiara e finissima. “Quando ci ricapiterà un’occasione del genere?” ho detto a Gianni, mentre la sabbia mi entrava nelle scarpe rallentando la mia andatura. Ma in quel momento poco importava, ero in paradiso! Ho chiuso per un momento gli occhi e ho continuato a correre.

Salita sul ponte mancava l’ultimo km da correre, così ho sprigionato tutta la forza che mi era rimasta in corpo incoraggiata anche dalle parole di Gianni e così, con il sottofondo delle incitazioni delle persone che passeggiavano tranquille sul molo, ho tagliato il traguardo della Ragnar lanciando un urlo liberatorio e mettendomi a saltare e ballare al ritmo della musica che mi ha accolto.

Avevamo corso 250km in circa 21 ore. Qualcuno direbbe un’impresa da pazzi, io invece dico che è stata una figata pazzesca!

Solo dopo averla corsa capisco fino in fondo il significato delle parole di Tanner Bell, uno dei fondatori, che l’ha definita come una grande festa: non si corre e basta, ci si diverte insieme ai propri compagni, si ride e si scherza proprio come farebbe un gruppo di amici a un party di fine estate.

Se questa Ragnar è stata così speciale devo ringraziare i miei compagni di viaggio: Franco che mi ha fatto ridere a crepapelle, con il suo accento veneto e la battuta sempre pronta, Alberto con la sua guida sportiva e il bastone da massaggio con cui dava sollievo al suo tendine infiammato, Gianni che se avesse potuto avrebbe corso anche tutta la distanza da solo tanto era forte la sua voglia di correre e Stefano, che con il suo fare pacato e risoluto ci ha guidato fino alla meta. Mi sono sentita coccolata e protetta dal mio team, che mi ha sempre assecondato (anche quando stavo sbagliando), era come se li conoscessi da sempre. Il legame umano che si è creato vale più di qualsiasi sfida o competizione, è questo che ha reso la Ragnar unica e indimenticabile!

Reebok è stato lo sponsor perfetto: con il concept be more human ha abbracciato perfettamente lo spirito della Ragnar: essere più umani. Ma in che modo? In primis verso noi stessi, accettando vittorie e sconfitte, momenti di gloria e momenti di difficoltà (come lo è stato per me perdermi), mostrando agli altri i nostri timori, spogliandoci delle nostre armature con le quali ci nascondiamo per paura di far trasparire le nostre debolezze. Ma anche verso gli altri, aiutando chi ci sta accanto, abbandonando la mentalità da runner individualisti e aprendoci agli altri al fine di condividere un’esperienza che va al di là della corsa, e che per me rappresenta un po’ la metafora della vita.

Sono orgogliosa del mio team e di averne fatto parte. Riparto da qui con nuova energia verso i miei obbiettivi futuri, nella vita e nel mondo running. È tempo di dedicarsi corpo e mente alla maratona di New York, con una nuova convinzione:

ITALIANS DO IT BETTER

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