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C’era una volta… la MoMot

C’era una volta un Re, Carlo “il fedifrago” da Triuggio, che, nel lontano 1750, in una calda notte di maggio, fu sorpreso dalla moglie Mariuccia, detta “la prosperosa” per via del suo abbondante seno, mentre la tradiva con Filippa II di Correzzana e, per sfuggire all’ira di Mariuccia, scappò dalla Villa Reale vestito solo di pancera e parrucchino.

Percorse di corsa insieme ad Egidio, suo fido vassallo, tutta la Valle del Lambro e del Curone per poi fermarsi stremato sulla cima più alta di Montevecchia, a 1500m di altezza, con la speranza di aver seminato Mariuccia e i suoi cani da caccia.

Purtroppo i due fuggitivi vennero raggiunti, e mentre Egidio fu buttato in pasto ai cani, Re Carlo fu soffocato dal seno della moglie tradita.

Sulla base di questo racconto, ritrovato da un giovane runner chierichetto negli archivi parrocchiali di Lomagna intorno agli anni 70, ha preso vita la Monza Montevecchia Eco Trail, gara che vuole far rivivere l’esperienza di coppia dei due malaugurati. Ovviamente a tutti i partecipanti si augura un finale migliore dei due protagonisti.

La mia “fuga”, accompagnata dal Motta, è iniziata intorno alle 8:40 di domenica 27 maggio, con la discesa dei gradini della Villa Reale di Monza. Con indosso le nostre nuove divise Mizuno, dopo una breve sfilata di fronte a tutti i partecipanti ci siamo addentrati nel parco di Monza, dove abbiamo percorso i primi 5 km dei 33,5 che ci aspettavano. Abbiamo attraversato il viale alberato del Parco che costeggia l’autodromo che ci ha condotto all’uscita di Biassono, dove si è concluso il Trofeo della Velocità. Il caldo ha iniziato a farsi sentire da subito e non ci ha dato tregua fino alla fine. Avendo alle spalle altre 6 edizioni, il Monza Marathon Team, ha pensato bene di dislocare parecchi ristori e punti di spugnaggio per dare sollievo dalle alte temperature e garantire una giusta idratazione ai partecipanti nell’arco di tutta la gara. Al di là di ogni previsione i guadi, da me molto temuti, si sono rivelati anch’essi utili per rinfrescarsi, anche se riprendere a correre con le scarpe e le calze impregnate d’acqua non è stato facile come bere un bicchiere d’acqua.

Proprio il caldo è stato uno dei miei peggior nemici durante la gara. Attraversare i campi assolati sui sentieri che altri prima di me avevano tracciato con i loro passi, con il sole che picchiava sulla testa, mi ha debilitato. Fonte di salvezza sono stati i miei nuovi occhiali da sole, acquistati all’Expo della scorsa Milano Marathon, che mi hanno protetto dalla luce e dal riverbero dei raggi solari. Ho sempre sottovalutato l’importanza di un paio di occhiali da sole per il running, nonostante tempo fa avessi letto che erano stati uno degli elementi determinanti per la vittoria di Baldini alle olimpiadi di Atene del 2004. Avendo corso per buona parte della gara controsole, gli occhiali gli hanno permesso di risparmiare molta energia che avrebbe altrimenti sprecato nel tentativo di mantenere una visuale chiara. Per di più per i miei occhiali ho scelto delle lenti polarizzate, che si scuriscono in ambienti molto luminosi, e si schiariscono quando la luce diminuisce, permettendomi di avere un’ottima visibilità anche una volta addentrata nei sentieri boschivi.

Caldo o non caldo stavamo correndo per raggiungere lo step intermedio della gara: dovevamo arrivare al “cancello” del 26° km entro le 3 ore altrimenti saremmo stati squalificati. Ebbene, siamo riusciti a passarlo entro le 2 ore e 30, in realtà anche qualche minuto meno. Mi sono sentita rinvigorita da quel risultato, ma non è durato molto. Mancava ancora la parte più dura: aveva inizio il Gran Premio della Montagna, un tratto in salita di circa 2 km che avrebbe portato in piazza a Montevecchia fino al Santuario. Qui le gambe hanno iniziato ad arrancare, facendomi diminuire il ritmo della corsa, fino a farmi camminare. Procedevo ma camminando, sentivo di non avere più le forze per correre in quel tratto così “troppo” ripido arrivati a quel punto della gara. Ho percepito la preoccupazione di Andrea che, al contrario mio, se la sarebbe mangiata quella salita, ma ha tirato il freno e mi ha accompagnato metro per metro supportandomi sia con la sua presenza che con le sue parole. Le sue domande non hanno avuto tutte una risposta da parte mia, sentivo di non avere abbastanza fiato per rispondergli e ogni parola mi costava un sacco di fatica. Perché è questo lo spirito della gara, correre insieme in coppia, con tutte le difficoltà che questo comporta. Ma nel corso della gara abbiamo corso anche insieme ad altre coppie, perchè lo spirito che si respirava non era di spiccato agonismo, che in genere spinge a voler prevaricare sugli altri, ma di condivisione, come se si stesse correndo con gli amici di sempre.

E così, insieme, siamo arrivati in piazza, senza sbagliare tragitto come invece è successo ad alcune coppie per via della segnaletica non sempre chiarissima. Eravamo al 30° km e finalmente vedevo la luce in fondo a un tunnel fatto di sentieri stretti, dissestati e infangati, che a volte salivano e altre scendevano, nel bel mezzo della natura che ha fatto da scenario. Non ci restava che imboccare la discesa e dare inizio alla volata finale. Ho lasciato che le gambe decidessero da sole l’andatura da tenere, senza forzarle né frenarle, libere. Dopo tutta la fatica delle salite correre in discesa è stato quanto di più bello potesse esserci. L’adrenalina era cominciata ad entrare in circolo, tanto da far cantare sia IL Motta, che comunque aveva fiato ed energia da vendere, che la sottoscritta, che aveva già dimenticato tutta la fatica appena fatta.

Dopo aver attraversato, questa volta per il lungo, l’ultimo guado e aver corso per pochi minuti ecco che spuntano al di sopra di una montagnetta coperta d’erba i gonfiabili della finish line. Andrea ed io ci prendiamo per mano e iniziamo a procedere insieme. Gli applausi si fanno sempre più vicini, come anche tutte le persone che ci stanno aspettando. È in questo momento che mettiamo in scena la “coreografia” che avevamo provato prima di partire: con le due mani che avevamo libere dovevamo mimare un aeroplanino coordinandoci su quale braccio fare andare verso l’alto e quale verso il basso. Sono abbastanza dubbiosa sul buon risultato della nostra coreografia, ma questo non ci ha impedito di mostrare il nostro più bel sorriso nel tagliare il traguardo. Con la medaglia di legno al collo, direi unica nel suo genere, ho abbracciato il mio compagno di avventura, che è stato per me come un angelo custode in questa gara durissima ma allo stesso tempo bellissima, che sicuramente mi resterà nel cuore.

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